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Biografia semiseria
Gerardo Lunatici (1961), toscano di nascita, parmigiano d’adozione, è pittore e illustratore, insomma, secondo le tradizionali categorie della cultura, è artista…
Definirsi artista, di questi tempi, suona un po’ ridicolo, a volte anche un po’ patetico…
Ormai è’ diventato un titolo che non si nega a nessuno. Tutti, a modo loro, si sentono artisti! Non so se Lunatici sia un artista o meno, considerando anche i parametri attuali che, nel mondo dell’arte contemporanea, definiscono colui che è artista, o il cui lavoro può essere definito come arte (magari con la A maiuscola). Una cosa però penso che si possa dire, e cioè che Lunatici è un pittore e prima ancora un disegnatore di un certo talento.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è se la pittura sia ancora da considerarsi arte, o meglio… Arte.
Ma non credo che la risposta interessi Lunatici che, più ironicamente, definisce la sua attività di pittore e disegnatore come una malattia. E allora stiamo al gioco e proviamo a redigere una breve biografia del nostro artista, pardon, malato, come se fosse un referto medico…
Gerardo Lunatici, per gli amici (non molti, in verità – ma, si sa, gli infermi sono tipi solitari, un po’ per scelta un po’ per necessità…), per gli amici, dicevo, è solo Gerri, è nato in Toscana, da Emma, artista del Circo (ecco che torna la parola artista…) e Roberto, pittore e poeta (come in tutte la malattie, anche in questa il patrimonio genetico è fondamentale, e nel caso di Lunatici, il suo destino era segnato); dall’età di 6 anni vive a Parma, città che lo ha generosamente adottato.
A 8 anni, copiando i fumetti della Disney, ha contratto il morbo, che già si aggirava in quella casa dove trovavano ospitalità pittori, poeti e altra gente stravagante.
Da allora, nonostante le dispendiose cure (gli studi classici, le lauree in Filosofia e Storia dell’Arte – quest’ultima una specie di terapia omeopatica…) e i ripetuti tentativi di vaccinazione (come un impegnativo lavoro di insegnante in un liceo che dovrebbe stroncare le velleità del più romantico sognatore), non è più guarito; anzi, forse ha visto col tempo aggravarsi la sua malattia, che si è così cronicizzata.
Malattia strana questa, che prevede come cura l’esercizio, appunto, del disegno e della pittura. Malattia poi che si manifesta anche in forme pubbliche attraverso mostre personali (a Parma, Collecchio, Trieste, Firenze, Ferrara, Bologna) e collettive con altri malati (alcuni immaginari) della stessa patologia (a Collecchio, Laveno Mombelo, Sarajevo, Parma ecc.). Anche il giornale locale, la Gazzetta di Parma, ha dato voce alle sue sfogazioni per 15 anni (dal 1993 al 2008), contribuendo a sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti del morbo.
La famiglia, a volte irritata, a volte complice, più spesso indifferente alle sorti ormai segnate dell’infermo e comunque rassegnata, convive con la malattia del caro congiunto, che involontariamente ha inoltre contagiato un po’ tutti; così facendo ha acuito il suo senso di colpa per non essere sano e cazzone come gli altri.
Eh sì, perchè questo è lo stato d’animo permanente del Lunatici: da una parte non poter fare a meno di riempire fogli e tele di immagini, come fosse spinto ogni volta da un demone, da una necessità, da un’urgenza che gli rende secondaria ogni altra cosa; ma dall’altra di rammaricarsi e pentirsi di passare la vita a riempire fogli e tele di immagini.
Come Petrarca, che non voleva perdere la sua vita dietro a Laura (che tra le altre cose mai gliel’ha data) e nello stesso tempo non ne poteva fare a meno! Ditemi voi se questo non è un destino quanto mai commiserevole!
Hanno scritto di me
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Ciascuna impronta è il segno di qualcosa o qualcuno passato in un dato momento, in quel punto esatto.
Presenza che evoca un’assenza, inseguirne le tracce è da sempre un’arte: l’arte del ritrovamento.
Nell’intreccio di queste traiettorie è avvenuto l’incontro… l’archetipo, il primo segno impresso. Non dall’uomo: dalla natura stessa.
Un passo avanti. Un passo indietro.
Sinopie che il tempo, la gravità e i secoli hanno composto lungo intere ere geologiche, i fossili dipingono il suolo in un mondo capovolto, dove l’abisso è il cielo.
Risorti da effluvi di fuoco, sopravvissuti a diluvi universali, segni di uno spirito indomito impresso nella materia, tornano nel corpo di conchiglie e foglie, ali, spirali e ghirigori.
Come un fiume che scorre solo controcorrente, il fossile intaglia la sua casa nel tempo anziché nello spazio. Incide la pietra, piuttosto che il fango.
Non simulacro ma ex creatura vivente, ogni fossile diviene icona di se stesso, a incarnare la straordinaria, immanente possibilità di infinite individualità. Un passo indietro, un passo avanti…
Fossili ritratti in tele grandi per creature a volte di pochi centimetri, impressi in piccole tavole per reperti che immaginiamo giganteschi, come a dire che non la dimensione conta, bensì la proporzione.
La proporzione tra la natura e il tempo, tra il tempo e l’uomo e il suo destino. Segno tangibile, oltre che visibile, di un mondo che fu. Totem e presagi, mai forse così attuali, di cataclismi possibili e infine probabili, i fossili sono il presentimento del tempo che verrà.
Cassandre inascoltate, lasciano intravedere la terra prima di noi, e dunque immaginare la terra dopo. Richiamo irresistibile, per chi tenti un disegno del mondo. Un balzo… fino all’ultimo, quasi sacrilego pensiero: dipingere la polvere che non ritornerà alla polvere.
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Il ritratto può certo ridursi al volto di Narciso dell’autore che si impadronisce del viso altrui e vi si riflette, può divenire il segno di volti terzi intersecati tra loro sino a evocare entità estranee al soggetto originale, ma può invece, forse deve, costituire un’intercessione, dare spessore a un luogo posto a metà strada tra fedeltà e interpretazione, dove metà non indica tentazione di compromessi, bensì soglia tra due possibilità, punto di incontro di più traiettorie…
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Considerato fin dall’età umanistica ‘cosa divina’, il ritratto è stato assunto dalla modernità in una dimensione molto più ravvicinata: una specie di radiografia, del corpo e dell’animo.
Per la sequenza dei suoi scrittori a tavola Lunatici ha portato significative variazioni ai consueti registri linguistici del suo lavoro per immagini…
Ne esce, così, una galleria di situazioni individue, legate alle esperienze conviviali da ragioni remote o prossime: una lettera di Beethoven e un aforisma di Ceronetti appaiono sullo stesso piano, associati, in questo caso, da idee opposte sull’uomo e sulla vita.
Nel mondo contemporaneo delle arti anche noi critici militanti corriamo il rischio di dimenticare, per eccessivo interesse per le giovanissime generazioni, che nella fascia di artisti che va tra i quaranta e i settanta esistono personalità di rilievo che hanno approfondito lo studio della figura umana e della struttura del paesaggio, oltre le tecniche dell’informale.
Il mezzo più comune per studiare la figura umana è, come di sa, quello del ritratto.
È dal Medioevo che i santi sulle pareti delle chiese appaiono come grandi ritratti che si imprimono nella memoria; penso per esempio a quelli emblematici che vidi nel villaggio bulgaro di Boyana, che mi sono portato dietro nella memoria come un’ammonizione del passato medioevale senza le modificazioni formali della nostra arte occidentale. Un realismo assoluto, senza compiacimenti.
Poi, nell’epoca moderna, nel ritratto si è sempre più cercato di imprimere una caratterizzazione individuale fino ad accentuare i difetti del volto esagerando le sue particolarità.
Alla fine, questo modo di rappresentare la figura umana si è chiamato “espressionista”.
Il ritrattista contemporaneo si è sentito quasi in obbligo di essere un po’ “espressionista” nel modo di trattare la figura umana e ciò ha portato a concludere che in un certo senso si è confusa la caricatura con il ritratto, eppure il grande esempio di Daumier ci può ancora insegnare qualcosa.
In questo campo del ritratto caratteristico, che confina con quello dell’illustrazione, alcune personalità come quella di Tullio Pericoli si sono fatte un gran nome; ma ora vengo a conoscenza, fuori dall’area emiliana in cui è famoso anche per la sua collaborazione alla Gazzetta di Parma, di questo ingegnoso professore di Italiano e Storia, creatore di geniali ritratti di personalità della nostra epoca, che è Gerardo Lunatici, un toscano di Castelfiorentino che ora insegna e opera a Parma.
Lunatici, avvalendosi certo di fotografie, ma soprattutto di fantasia “culturale”, stende su tele assai vaste ritratti di personalità del cinema da Antonioni da Ingmar Bergmann, della letteratura da Moravia a Prévert, a Borges, a Ungaretti, tocca anche tasti delicati come quello della problematica raffigurazione di Céline e così via, raffigurando anche i personaggi da noi meno popolari come i giapponesi Mishima e Kurosawa e lo slavo Kosturica.
Non sono certo ritratti in posa, ognuno ha un gesto e un atteggiamento tipico. Si penserà che questo è un patrimonio della buona illustrazione, guardata sempre in sospetto dai Pittori con la P maiuscola.
Ma mi piace subito affermare che è riduttivo considerare questo metodo di rappresentazione come un sottoprodotto della pittura.
Così la pensavano i pittori bravissimi che decoravano le chiese del Medioevo, in particolare in Oriente dove non imperava il dogma del classicismo ellenistico; penso per esempio alle chiese russe di Novgorod e di Suzdal, dove il pittore affidava al gesto e alla particolare intonazione di colore il racconto senza bisogno di narrarlo figurativamente.
Sì, questi “ritratti” di Lunatici, oltre che divertirmi, mi confortano dopo tante “figure” in rigida posa che ho visto in tutto il corso del Novecento. L’esuberante panciotto rosso di Fellini mi dicono di lui tanto quanto la mancanza di corpo di Ezra Pound mi suggerisce l’amarezza del personaggio, cinico spettatore dei nostri tempi.
Si potrebbe continuare con questi esempi; qualche volta Lunatici inquadra il personaggio nell’ambiente a segno della sua socialità com’è il caso di Hemingway. I personaggi americani sono espressi con una potenza selvaggia, Steven Spielberg è quasi sguaiato e Miles Davis è terribilmente triste. E si potrebbe continuare. Questi ritratti di Lunatici sono una sorta di storia contemporanea per immagini, qualcuno ha maggiore consistenza plastica, altri sono più illustrativi. C’è nell’autore un maggiore o minore amore per il personaggio; uno dei più romantici, con quel taglio rosso e giallo del fondo, è il ritratto del dormiente Stanley Kubrick. Lunatici non è soltanto un ritrattista, è anche un pittore di paesaggio.
La struttura plastica del paesaggio è minima, la direi ispirata alla fantasia cinematografica: giardini andalusi, boschi arrossati dall’autunno, spiagge e fiumi esotici. La figura non c’è, bisogna accostarsi mentalmente ai molteplici ritratti come a loro commento… Il carattere di questi paesaggi, dove le piante crescono umide dalle acque, è veneta, con verdi e rossi fascinosi che prendono corpo nel farsi senza un disegno premeditato. Ma voglio rammentare un’altra caratteristica che è particolare di Lunatici.
Non sono molti i pittori d’oggi che dipingano con amore gli animali, bisogna voler bene agli animali e conoscerli da vicino. Ma anche come animalista Lunatici è un fantasioso, come i pittori veneti del Settecento, come Pietro Longhi, che dipingevano gli animali esotici senza conoscerli. Le zebre, gli struzzi, i leopardi di Lunatici si imprimono nella memoria…
Ma gli interessi pittorici di Lunatici non si fermano qui: c’è tutta una serie di opere, che egli intitola “Requiem”, che ci presenta una umanità colpita, tale da ricordarci le recenti stragi orrende del Ruanda e del Burundi, per non parlare dell’Irak. Lunatici non le localizza, lascia alla fantasia del riguardante scegliersi uno dei tanti teatri dove questi orrori avvengono continuamente. Soltanto il cadavere di Salvatore Giuliano ha un’attenzione speciale, per il resto basta Requiem, la morte e la pietà. Anche questi dipinti sono pregnanti di esotismo che poi dilaga nelle sue opere minori, forti pastelli su carta, qualcuno molto originale, come quel cesto fiorito che si appoggia sulla testa di un africano.
Un contesto, questo di Gerardo Lunatici, che deve essere considerato come un fatto di portata non soltanto emiliana, e neppure nazionale. Se noi italiani avessimo più coscienza dei nostri valori, dovremmo considerare un artista come questo un contributo importante alla pittura europea e non soltanto come un piacevole e geniale autore di ritratti illustri.
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Lunatici è bravo, il suo segno è analitico, nel tratto e nel suo significato. Si tratta, per lui, ora, di trovare una lingua personale che lo renda riconoscibile lungo il corso dischiuso da Pericoli.
E alcuni ritratti portano, a mio avviso, questo segno di riconoscibilità per il giovane autore: quello di Bertolucci, ad esempio, tracciato con chiara sintesi grafica; e, ancor meglio, quello di Gianfranco Contini, costruito con segno verticale, in una finta cancellazione che ricorda la pittura di Bacon.
Questi, ed altri, sono i segnali che indicano in Lunatici la ricerca di una via interna del ritratto su personaggi famosi: con il proposito, implicito, di costruire, come ha scritto Almansi a proposito di Pericoli, il suo autoritratto.
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La domanda che sorge spontanea a questo punto è se la pittura sia ancora da considerarsi arte, o meglio… Arte.
Ma non credo che la risposta interessi Lunatici che, più ironicamente, definisce la sua attività di pittore e disegnatore come una malattia. E allora stiamo al gioco e proviamo a redigere una breve biografia del nostro artista, pardon, malato, come se fosse un referto medico…
“Colpisce, di questi ritratti, la genesi nel tratto (della punta d’inchiostro): il segno cerca la rappresentazione, governato dalla preoccupazione di evitare la caricatura e altrettanto di trascurare la mimesi fotografica; il segno si fa garante del curioso ma rispettoso e necessario distanziamento, l’analisi fisiognomica assiste il progresso del tratto verso il ritratto del volto. Ma negli elementi circostanti la partecipazione, la simpatia, la firma interpretativa di Lunatici può esprimersi con delicata, ludica ironia o con personale, allusiva memoria dell’incontro con l’opera del soggetto: svolazzano Uccelli nel cielo di Hitchcock, emerge da un guscio il volto di Darwin, nel pensatoio di Brera c’è un bicchiere di rosso più vuoto che pieno.”
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Gerardo Lunatici ha passioni hemingwayane che nessuno direbbe mai e c’è il sospetto che faccia proprio dell’insofferenza la miglior sua consigliera.
Già nella tecnica usata per le quasi quaranta opere esposte: pastelli, né a cera né ad olio, ma a polvere pressata, tipo gesso, dati su carte povere ed irregolari, come quelle da pacco, porose e zigrinate, trattate prima con una mano di tempera scura.
Un’emozione violentemente materica, che in alcuni casi ricorda le voluttuose combustioni di Burri, e luministicamente strattonata, come se Gauguin diventasse suo malgrado un dramma barocco…
Perché, alla fine, se è vero che Lunatici non ama le pitture rassicuranti da salotto, dove rose e carciofi hanno più o meno lo stesso spessore decorativo, il suo mettere in crisi, con un intento culturale ed etico che impone per forza di sentimenti una riflessione, indica sempre una via d’uscita. Abbracciare la rabbia e trasformarla in energia creativa.
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Come la santità nell’arte italiana del Trecento. La materia si annoia di tanta densità e fuoriesce. Ma non è fulmineo: è un processo svogliato, quasi contro natura, dove l’ascesi si mette ad asciugare le carni, a illiquidire gli occhi, a trafugare il colore delle vene. E assottiglia verso l’alto, risucchia per l’invisibile, prepara all’incontro con la sostanza…
Circa 25 lavori a tecnica mista (tentata da oli, china, tempera e smalto, su carta stropicciata e incollata su tela), realizzati nel 2000 e dedicati da un uomo di matita, da tempo apprezzato ritrattista per le recensioni culturali del nostro giornale, a uomini di penna: romanzieri, poeti, filosofi…
E a guardarli bene, c’è un autoritratto in ciascuno. Perché anche Lunatici ha una sua aspirazione alla soavità, scritta nel giglio del tratto.
Dentro, potrà anche essere un concreto strattone del Masaccio, tant’è che predilige ‘autori estremi, che oscillano tra vitalismo e nichilismo, come Mishima o la Cvetaeva’, ma fuori sembra un angelo, appena uscito da una tavola di Simone Martini. L’inferno può attendere.”
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Si può anche non avere alcun peso sulla coscienza, se si sta nel presente. Essere una lieve pennellata d’olio su carta o su tela, che svapora, si sfrangia, si scioglie. Se poi il soggetto, beato lui, pratica il “carpe diem” oraziano, incapace di rivangare il passato o andare in ansia per il futuro, l’effetto giunge al massimo.
Sono gli esseri che il Vangelo ci ricorda non si preoccupano né di quel che mangeranno né di quel che vestiranno, gli interpreti della mostra “Animali selvaggi”…
Un occhio, quello di Gerardo, che si mantiene in equilibrio dinamico, perennemente in fieri tra assenza e presenza: animali che in parte sono fuori dalla tela, in parte stanno dentro ma non del tutto visibili: a chi manca una zampa, a chi un corno o un orecchio. In fondo, una visione lunatica, proprio come nel destino del suo cognome.
Il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà. Così scrive Paul Valéry e così penso guardando i quadri di Gerardo Lunatici.
I suoi quadri nascono sempre da un furor, da una passione improvvisa e monotematica, come capita per gli amori assoluti…
Sono immagini che vanno ben oltre la fotografia a cui Lunatici s’ispira. Non è la fonte importante, quanto piuttosto lo sviluppo artistico dell’immagine, dell’atteggiamento dell’artista, ciò che viene strappato dalla pittura. E’ una emozione.
Così capita con Zavattini, colto quasi in uno spasmo; Moravia con le braccia incrociate; Ungaretti chino su di un libro; Montale sopra una seggiola di vimini con le mani intrecciate; Borges abbandonato sopra una poltrona con le gambe aperte; Bertolucci, signore, che gira un caffè…
Una raccolta di ritratti firmati da un pittore che pur essendo ancora un giovane artista ha lasciato il segno sul territorio… Si tratta di una ventina di ritratti – dice Lunatici – di scrittori e personaggi della cultura.
I ritratti sono il frutto di un lavoro che dal bianco e nero è passato alla china con l’inserimento del colore: acquerelli, pastelli e adesso olio su dimensioni abbastanza grandi.
Rispetto al passato, la ricerca ha raggiunto un risultato più completo. Sicuramente il ritratto è un genere della pittura considerato in disuso rispetto ai fasti del passato. E personalmente l’ho ripreso perché credo in questi personaggi degni di una celebrazione. Una forma di celebrazione non retorica, per coloro che veramente hanno arricchito l’umanità di qualcosa che rimane.
L’unica fede che si può avere è quella nella cultura, che diventa un valore e serve in tutti gli aspetti della vita. La scelta non dipende quindi soltanto dalle belle espressioni di questi personaggi ma dalla mia convinzione che questi siano gli ultimi eroi. Sono scrittori colti nel loro quotidiano, in pochi gesti: una celebrazione realizzata un po’ sottovoce, sottolineando il rispetto verso la loro grande umanità e dignità.
La complessa personalità del santo traspare incisivamente nella pala d’altare del Lunatici, che con abile tratto palesa il rigore interiore del santo senza nulla togliere alla delicatezza d’animo. (…)
L’artista in una sintesi mirabile ha saputo coniugare alla luce del bello le tante sfaccettature di questo prisma luminosissimo che porta un nome caro a milioni di fedeli sparsi nei quattro continenti: Antonio di Padova, o più semplicemente il Santo.
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Gerardo Lunatici con i suoi ritratti assolutamente riconoscibili ma mai stucchevoli o troppo fissi nella loro rappresentatività, mostra di aver saputo radicare la cultura figurativa al proprio tempo.
L’idea che ha suggerito la realizzazione di queste opere parte da una domanda che l’artista si pone e cioè: chi sono gli uomini illustri del ‘900? (…)
Ecco allora nascere “IMAGINE”, percorso per immagini della colonna sonora degli ultimi cinquant’anni, tra i ritratti di J. Lennon, B. Marley, M. Davis, J. Morrison e gli altri che ci guardano dalle pareti dell’enoteca, forti dei loro primi piani fra giochi prospettici, indugi cromatici, sfondi a più colori per sviare l’occhio da possibili suggestioni e contrasti puramente pittorici e riportarlo là sul volto, sul corpo, sull’atteggiamento di una o dell’altra celebrità di cui l’autore riesce a cogliere i tratti, gli atteggiamenti più significativi.
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Questi paesaggi, questi volti, queste scene di vita sono espressione di una espereianza visiva personale, di un diario che riporta alla memoria i tour dei grandi viaggiatori del passato che nei secoli hanno colto culture e visioni dei mondi attraversati.
Si evidenzia una sorta di continuità non solo visiva e formale ma anche mentale tra i luoghi raccontati. Un aspetto questo che dà spazio all’interpretazione così da fondere realtà e sentimento, impressione e pensiero.
Il risultato è, come lo stesso autore indica: una sorta di autobiografia per immagini dove alla fine ogni luogo rimanda sempre a qualche altro luogo e soprattutto ad un altro spazio: quello della pittura.