GeoGRAFIA del volto. Ritratti di Gerri Lunatici.

Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino
incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti.
Luigi Pirandello

Cosa è un volto?

È l’immagine di noi stessi? E – quando ci specchiamo – ci riconosciamo sempre in quei tratti riflessi o talvolta abbiamo l’impressione che qualcosa non corrisponda a ciò che siamo, che manchi un qualche particolare essenziale?

La persona che rimanda il nostro sguardo siamo davvero noi o piuttosto il volto che vediamo è un estraneo che ci osserva da lontananze inimmaginabili?

Questo senso di straniamento è insito nel tema che cerco di affrontare in questa mostra di ritratti a china. Mi spiego meglio.

Il termine stesso persona viene da maschera. Scomodando Pirandello, possiamo tranquillamente affermare che il nostro volto è una maschera che ci rappresenta, ma anche ci nasconde, ci protegge. Dietro non c’è nessun volto “vero”.

Noi siamo quella maschera lì, il frutto della genetica, ma anche della nostra storia individuale. Ogni volto, come l’impronta digitale, è unico e irripetibile, lo sanno anche i gemelli.

A proposito degli occhi, ad esempio. Davvero sono lo specchio della nostra anima?

Secondo la fisiognomica, ad esempio, il volto esprime i nostri sentimenti. Per Leonardo manifesta gli stati d’animo dell’essere umano (ma anche li cela, come nel caso della Gioconda). Per Lombroso il volto è l’espressione stessa della nostra personalità. Dal volto, insomma, si può capire chi siamo.

Anche il linguaggio è testimone della rilevanza che diamo al volto: “metterci la faccia” – dice un modo di dire, per significare l’assunzione di responsabilità che ognuno di noi deve attuare nella vita, ma anche “perdere la faccia” – si dice al contrario per significare la perdita di reputazione. Faccia a faccia indica un rapporto diretto; salvare la faccia significa salvare le apparenze…

Tornando all’arte, le facce sono entrate presto nella sua storia. Il genere del ritratto sembra nato proprio per ricordare le persone che non ci sono più: la loro effigie, come dicevano i latini, sostituisce la persona reale, il ritratto la eterna, rende presente un assente.

Quell’immagine, però, fissa un momento prestabilito, un ricordo determinato. Perché anche un volto, come tutto nella vita, è fluido, per usare un termine contemporaneo: cambia nel tempo, muta a seconda delle circostanze, dell’umore, del contesto.

E quindi nessun ritratto, neanche quello fotografico, può mai restituire l’essenza di ciò che siamo, anche perché questa essenza è sfuggente pure a noi stessi.

Lo sapeva bene Giacometti quando dichiarava la sua impotenza a rappresentare un volto: “Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente.”

Quindi, se un volto reale non dice chi siamo, come può un ritratto essere la sua rappresentazione?

Qualcuno ha detto che un ritratto è sempre, in realtà, un autoritratto, che racconta molto di più dell’esecutore che del soggetto rappresentato. Ma è anche vero che ogni autoritratto è sempre la rappresentazione di un altro da sé.

Insomma, siamo bloccati in un impasse senza via di uscita, come in uno stallo alla messicana.

Personalmente considero un ritratto una forma di esplorazione: ritrarre un volto corrisponde a percorrere una carta geografica, risalire una ruga come fosse un corso d’acqua, scalare un rilievo dell’epidermide come un crinale, costeggiare un’efelide come un’isola sperduta nel mare.

E poi un ritratto non è solo un volto: è anche cappelli, sciarpe, pipe, penne, tutto un armamentario di arnesi che creano come una costellazione intorno alla persona ritratta. Anzi, intorno alla sua maschera …

Quindi, mollate gli ormeggi, avventuratevi nei volti, sia quelli reali che quelli ritratti, e fate buon viaggio!

Gerri